2 febbraio 2010

Gli apostrofi danzanti (ovvero: a ciascuno il suo perché - parte 1)


Perché dobbiamo essere sempre noi a spiegare il perché? Il perché di quel che facciamo o perché suoniamo quel che suoniamo?
Tanto per cominciare: perché no? Quand’è che si capirà che non c’è niente da capire?
Ci dicano loro, casomai, una volta per tutte, finalmente, che musica ascoltano? Perché?
Perché guardano ancora la televisione, MTV compresa? E perché, com’è possibile che ci sia perfino chi segue (omioddio) il festival di Sanremo?
Ma sarà poi vero? Temo di sì.
E perché poi vanno ai concerti di Renato Zero, santo cielo? So anche per certo che qualcuno di loro va a sentire roba come i Tokyo Hotel. Tom Jones! Mi chiedo: perché?
E fermiamoci qui. Non parliamo neanche del perché si divertono con zelig-grandefratello-amicidimariadefilippi-xfactor-serenadandini. Non lo voglio sapere.
Mi domando però: lo sanno quello che fanno? Certo, non fanno niente di male, ma li cercano i loro perché? E se no, perché non ci provano?
E poi, alla fine, chi diavolo sono “loro”?

Quando ho inviato queste belle riflessioni via mail mi sono accorto che dal testo erano spariti gli apostrofi. Dov’erano andati? Perché succedono queste cose?
Così li ho rimessi e ho rispedito: gli apostrofi non solo sono tornati, si sono raddoppiati. Ma perché mai?
Guarda che è una bella storia.
A questo punto voi vi chiederete: ma perché questo tipo continua a parlare di apostrofi e di un sacco di perché di cui non ce ne importa niente?
C'è una sola risposta a questo perché.
Ma non so qual è.

Andiamo avanti.
Film: “La sera della prima” di John Cassavetes. Due personaggi sulla scena di uno spettacolo teatrale, l’uomo dice alla donna: “Tu sei la mia ispiratrice, prima di incontrarti io ero un fallito, un ubriacone; ero una specie di Falstaff senza pancia e senza spirito, ero un Dean Martin senza fascino. Ero una frana. Per me chi parlava poco era un ignorante, chi parlava troppo un presuntuoso; la musica era solo rumore e l’arte una presa per il culo.”
Spegniamo il computer e usciamo di casa. Due passi verso il centro. Teniamo la testa alta e osserviamo le persone che incrociamo. Saliamo su un autobus e ascoltiamo i discorsi, le telefonate all’aria aperta coi cellulari, sbirciamo cosa leggono. Nessuno di loro è un fallito o un ubriacone, sono brave persone, tranquille, oneste, di tutte le età. Studenti, impiegati, dirigenti, badanti: però la metà di loro se non di più, sotto sotto, ci scommetto quello che volete, considera la musica e l’arte come Cassavetes nel suo film, prima che incontrasse Gena Rowlands. Un fastidio o una noia.
La musica in particolare. A meno che non sia legata a qualche bel ricordo, alle vacanze, all’adolescenza e ai primi sbaciucchiamenti e soprattutto che sia cantabile, di facile ascolto, leggera.
Le pop star riempiono gli stadi e i ragazzini agitano gli accendini ai loro concerti perché fanno canzoni semplici, disimpegnate, anche energiche ma immediate, orecchiabili, lo sappiamo bene ed è tutto chiaro anche per loro (le pop star, non i ragazzini) o almeno dovrebbe esserlo, nel dubbio non hanno che da controllare i loro estratti conto.
E’ ovvio che perché tutto questo funzioni bisogna che il livello complessivo, da una parte e dall’altra del palco, sia tenuto il più basso possibile e frenare ogni tentativo di crescita. Ci stanno riuscendo benissimo. Faccio fatica a immaginare qualcosa sotto al livello in cui siamo.
Ma certi animali riescono a sopravvivere anche nelle condizioni più estreme. Piccoli uomini crescono, o almeno ci si può provare.
Io ho raccoglitori pieni di 45 giri dell’Equipe 84 e dei Beatles, perfino di Lucio Battisti e mi piacciono oggi come ieri. Interi scaffali con LP di tutti i generi. Quand’ero piccolo il mio papà mica mi faceva sentire i dischi di Cecil Taylor o di Morton Feldman.
Adoro Paperino e i “Blues Brothers”, ma non per questo trovo noioso "2001: Odissea nello spazio".
D'altronde, alcuni miei carissimi amici non hanno la più pallida idea di che cosa sia il jazz o la musica contemporanea e sono felici così e io gli voglio un gran bene. E so che quello che non farò mai è cercare di convincerli di qualcosa.
Conosco insegnanti, medici, intellettuali, scrittori, architetti, e poi attori, registi, persone colte, impegnate, attive nel campo delle lettere, delle arti e delle tecnologie, che alla musica chiedono principalmente relax e intrattenimento.
Qui il livello non è certo basso. E allora, ancora una volta: perché? E’ una bella storia anche questa.
Possiamo provare a cercare delle risposte, ma non ora, discorso troppo lungo.

Poi può capitare che un bel giorno, quando meno te lo aspetti succede qualcosa.
Scatta la famosa molla.
Ma devi essere predisposto in qualche modo. Che so, qualche fattore genetico o un mutamento delle difese naturali. Così come si fa con certi virus.
Perché nessuna spiegazione di nessun perché può far cambiare idea a quello che se ne esce da un concerto di Ornette Coleman o dell'Art Ensemble of Chicago senza aver provato emozioni e tutto quello che riesce a dire è "che palle".
Ricordo di un amico, compagno di università, seduto accanto a me a farsi una colossale dormita durante un concerto dell’Alexander Von Schlippenbach Quartet, nel mese di giugno del 1977, al Teatro Lirico di Milano.
Fu il mio primo vero concerto di musica radicale improvvisata - un’esperienza dura, ammettiamolo, per il mio ancor giovane unico orecchio - ma in qualche modo contribuì a farmi diventare quello che sono diventato. (Me lo chiedo io prima che lo facciate voi: perché non sono rimasto a casa, quella dannata sera?)
Comunque, il mio vicino di posto si è poi svegliato, ha ripreso gli studi e ha continuato a suonare i pezzi dei Crosby, Stills, Nash & Young alla chitarra.
Io no.
Siamo rimasti lo stesso in buoni rapporti.
In conclusione, ad amici e conoscenti, alle persone colte di cui sopra, a “loro” direi: guardate che mica vi ammalate se venite ad ascoltare un mio concerto, ogni tanto. Non c’è da studiare niente prima, costa poco e, male che vada, una bella tisana calda e passa subito tutto.
A proposito di “loro”: qualcuno mi sa dire per caso dov’è finito il pubblico che fermentava nella Milano degli anni ’70, della musica sperimentale e popolare, degli Area e del free jazz, quella folla che riempiva fino all’inverosimile i festival di Re Nudo al Parco Lambro (oltre 200.000 persone nel 1976) e sfondava ai concerti di Anthony Braxton? E i loro figli?
Chi avesse delle informazioni a riguardo può rispondere compilando gentilmente il modulo qua sotto.
Grazie.